Fabbricare Fiducia_Architettura #119 | Il cigno nero e l’utopia del domani | Monica Prencipe
Come immagini il mondo dell’architettura dopo l’attuale crisi virale?
Negli anni sessanta i giovani, figli del primo benessere post-apocalittico, iniziarono a rivendicare un sistema di vita non più basato sul possesso, ma piuttosto sulle possibilità della tecnologia e della libertà di movimento. All’estremo di questo sistema, l’uomo non aveva bisogno di molto: una stanza di neanche 10 metri quadri ma che fosse su quattro ruote. L’esperienza e la libertà messe al di sopra di tutto, che si contrapponevano all’immagine della villa con giardino. I due modelli, quello capitalistico e quello diciamo “anarchico”, sopravvissero odiandosi fino a l’altro ieri, non senza scambiarsi qualche buona idea come – appunto – la libertà di movimento: valore supremo del mondo pre-pandemico che poteva essere un buon affare per molti. Certo il sistema non era esente da falle: nella maggior parte dei casi, l’estrema mobilità aveva creato molti mondi solitari. I figli costretti ai quattro angoli del mondo, la famiglia tradizionale ormai sparita (guardate le statistiche). Insomma, il distanziamento sociale, se non fisico, c’era già, dato dal primato dell’autoaffermazione. Come se non bastasse, l’incentivo degli scambi e dei movimenti aveva aperto a numerosi conflitti per il possesso delle risorse, aveva giustificato guerre e devastazioni ambientali.
Poi, il “cigno nero”: l’evento raro e inaspettato che ci costringe a riscrivere i nostri paradigmi. Da un momento all’altro il valore supremo del movimento ci viene tolto e noi – a casa – ricominciamo a parlare con i mariti, i figli, i vicini, ricominciamo a usare la cucina come luogo di socialità. Io non so voi, ma sento già l’eco dei conservatori ammassare in branco. Le case di minimo 60 metri quadri sono un po’ questo: l’affermazione del proprio spazio, di un sistema di valori ben radicato nella nostra storia che sottende all’immagine della casa del mulino bianco. Sono un’affermazione che nulla dice circa l’affollamento e le speculazioni immobiliari. Vuoi essere al centro dei movimenti economici e culturali del nostro pianeta? Devi stare in città e per starci devi pagare. La libertà di movimento e l’inurbamento scellerato si sono trasformati nel primato dello spazio delle città, lasciando interi territori semi-abbandonati.
Proporre dunque un abbandono forzato delle città? Negli anni trenta le motivazioni igieniste erano in cima alla lista per le bonifiche agrarie del Duce. L’abbandono è atto imperativo se nulla si fa a proposito dell’economia di questi luoghi. Ma cosa proporre? Nuovo consumo di suolo? Nuove trasformazioni del territorio mentre i nostri centri storici giacciono semi-abbandonati o in preda al terrore per la prossima scarica di terremoto. Senza parlare degli ospedali e delle scuole. I primi hanno tenuto solo grazie alla chiusura forzata, segno di una certa sottostima all’interno del nostro sistema di valori. E la scuola? In Danimarca ci mostrano scuole aperte e banchi a due metri l’uno dall’altro, lezioni svolte in giardino per favorire la circolazione. Insomma, una barzelletta per noi italiani.
Più che di case più grandi di sessanta metri quadri abbiamo sicuramente bisogno di più servizi: un sistema sanitario diffuso ed efficiente; scuole con strutture adeguate e forse anche nuovi metodi di insegnamento, poiché costringere all’immobilità prolungata bambini e adolescenti è veramente controproducente (ora ce ne accorgiamo). Abbiamo bisogno di strutture che ci aiutino a gestire il tempo pomeridiano dei nostri figli senza doverli parcheggiare da nonni e madri; di lavori più flessibili che non ci costringano a movimenti insensati e non necessari; di sistemi di trasporto veloci ed efficienti che non tollerino le densità dei carri bestiame. Vogliamo case in cui entri l’aria pulita, la luce e il verde e che siano fornite di spazi di movimento e di condivisione da sfruttare quando non possiamo allontanarci dalla nostra abitazione.
Eppure, non è solo di questo che abbiamo bisogno: nell’immediato forse sì, sarebbe più di quello che abbiamo sempre sognato. Tuttavia non mi pare che tutto questo risolva i problemi intrinsechi alla base dell’intero processo: la necessità sociale, culturale ed economica di vivere in grandi città senza aria e senza verde; la smania di sgomitare sempre di più per avere una villetta con giardino; l’utilizzo dissennato della libertà di muoversi. Muoversi, abbiamo visto, è un privilegio, che porta con sé anche notevoli responsabilità nei confronti dell’intero pianeta.
Non rinunciamoci, non ripieghiamoci a sognare nostalgicamente un modello passato di una vita insostenibile. Il cigno nero è, come tutti i punti di catastrofe, un punto di cambiamento. Sta solo a noi stabilire da che parte far pendere la bilancia, se rivolgendoci ancora una volta al passato, o guardare avanti con il potere dell’immaginazione.
Monica Prencipe. Architetta specializzata in Beni Architettonici e del Paesaggio, oggi lavora ad Ancona come libero professionista. Ha vinto premi nel campo del restauro (Domus International Award for Restoration and Preservation – Special Prize for International Education) e la menzione per un concorso di progettazione in Africa. Nel 2018, ha concluso il dottorato presso l’Università Politecnica delle Marche in Storia dell’Architettura moderna, durante il quale ha iniziato ad approfondire i profili di alcune protagoniste italiane, tra cui quello di Elena Luzzatto Valentini (1900-1983), prima donna laureata in Architettura in Italia. Gli esiti sono oggi confluiti nel progetto di ricerca della Sapienza di Roma “Tecniche Sapienti. La presenza femminile nell’Ateneo (1919-1968)”.
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Title: Fabbricare Fiducia_Architettura #119 | Il cigno nero e l’utopia del domani | Monica Prencipe
Time: 11 maggio 2020
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